Ad un mese dall’esplosione del conflitto tra Hamas ed Israele invitiamo tutta la comunità scolastica ad una profonda riflessione. Lo facciamo attraverso uno stralcio dell’articolo a firma di Gianni Mercuri, pubblicato oggi, 7.11.23, sul Corrriere della Sera. Invitiamo altresì ad una profonda riflessione a partire da un’ampia lettura di testi di altri periodici e organi di stampa.
«Il 7 ottobre, Hamas ha cercato di spezzare lo spirito degli israeliani. Il fatto che stupri, saccheggi e sevizie siano stati documentati dalle telecamere frontali degli assassini e diffusi come video sui social media, dimostra che era una mossa di guerra psicologica premeditata. Mi inorgoglisce il fatto che sia successo l’esatto opposto di quanto pianificato da Hamas: le crudeltà del 7 ottobre hanno giustamente risvegliato negli israeliani i ricordi della Shoah e dei pogrom contro gli ebrei avvenuti nel passato, ma invece di spezzarci, ci siamo uniti. Rialziamo la testa consapevoli che non abbiamo altro posto dove andare. Questo è il nostro Paese e dobbiamo combattere perché continui a esistere».
«Perché questa storia possa avere un lieto fine, Hamas non ne può fare parte. Chi spera, come me, nella pace del Medio Oriente, deve augurarsi una inequivocabile, rapida, sconfitta di Hamas in questa guerra. Chi pensa, come me, che i palestinesi hanno diritto all’autodeterminazione, deve sperare che questa organizzazione terroristica, più micidiale dell’Isis, smetta di rappresentarli. Chi soffre, come me, anche per il dolore degli abitanti di Gaza in questi giorni, deve sperare che Hamas smetta di governare la Striscia».
«Dicono che la guerra durerà diversi mesi. Spero vivamente di no. Altre madri, da ambo le parti, perdono i loro figli ogni giorno. Altra distruzione. Altro dolore».
«Sfrutto tutte le capacità della mia immaginazione e guardo avanti, a primavera. La guerra è finita. Gli ostaggi sono stati rilasciati. Hamas non usa più Gaza come base per il terrorismo. Ci sono nuovi accordi di sicurezza e anche un orizzonte politico. Il primo ministro Netanyahu si è dimesso a causa delle responsabilità per questo disastro. Lo sostituisce un leader più coraggioso, più attento, che ha una vera visione per questa regione. Gli abitanti ai due lati del confine tornano alle loro case distrutte e iniziano a ricostruire».
È il 7 novembre, è passato un mese dal massacro di Hamas: 1.400 israeliani uccisi dai terroristi con calcolata atrocità, almeno 1.100 i civili, 240 le persone rapite e ancora tenute in ostaggio. Le note che avete appena letto sono di Eshkol Nevo: lo scrittore israeliano (Tre piani, Le vie dell’Eden, Neuland) ha affidato al Corriere un diario di queste settimane terribili, un documento bellissimo e prezioso, la testimonianza di un intellettuale che sa che il senso primario del suo mestiere è non sbagliare le parole.
Uomo di pace, Nevo spiega perché anche per un israeliano come lui — il miglior interlocutore israeliano possibile per un palestinese — l’urgenza principale sia la distruzione di Hamas. Spiega perché non ci sia pace possibile senza tradurre in realtà questa precondizione.
Proprio ieri, intanto, i palestinesi uccisi dai bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza hanno superato i 10 mila.
- I bambini: 100.
- Le donne: 600.
- I dispersi sotto le macerie, quindi quasi sicuramente morti: 300.
- Le persone che hanno dovuto abbandonare le loro case: un milione e 600 mila, il 70% della popolazione.
Si tratta del più sanguinoso conflitto combattuto da israeliani e palestinesi negli ultimi 75 anni, cioè da quello che nel 1948 portò alla nascita di Israele.
Le cifre delle vittime sono rese dal ministero della Sanità di Hamas: la loro attendibilità viene dunque messa a volte in dubbio, anche se le organizzazioni internazionali le giudicano verosimili e gli stessi americani (dopo le scetticismo seguito al caso dell’ospedale colpito da un razzo palestinese e non dagli israeliani) ora parlano di «migliaia di civili morti».
Il numero che davvero non conosciamo, però, è un altro.
Tutti sappiamo che le parole di Eshkol Nevo sono vere: con Hamas non c’è pace. Ma anche lui, per non sbagliare le parole, deve evitare quel numero.
Il numero che non sappiamo è questo:
quanti morti innocenti sono «giusti» pur di eliminare Hamas?
Sarà la domanda che martellerà il mondo con insistenza molto prima della primavera di pace immaginata dallo scrittore. Perché come sempre, le questioni di coscienza più angoscianti si mescolano alla politica cruda.
Due esempi, i più importanti:
- Joe Biden ha meno di un anno di tempo — 363 giorni, altri 52 martedì fino al fatidico 5 novembre 2024 — per convincere gli americani a lasciarlo alla Casa Bianca. I morti di Gaza gli stanno complicando (ulteriormente) le cose.
- Benjamin Netanyahu, invece, spera che i morti di Gaza gli allunghino una vita politica compromessa (ulteriormente) dalla tragedia del 7 ottobre. E oltretutto, i due leader non tifano certo l’uno per l’altro.
Benvenuti alla Prima Ora di martedì 7 novembre, che si occupa anche di tre mosse forti — e molto identitarie — di Giorgia Meloni del governo italiano: l’accordo con l’Albania perché l’Italia vi possa «allestire» centri per migranti, l’impegno personale della presidente del Consiglio sulla riforma costituzionale che prevede l’elezione diretta del(la) premier e la cittadinanza italiana riconosciuta d’urgenza a una bambina inglese di 8 mesi, gravemente malata, per evitare che siano interrotte le sue cure.
I soccorritori provano a estrarre un bambino dalle macerie, ieri a Khan Younis (ap)
La situazione a Gaza
La presa del cuore della Striscia da parte degli israeliani, la crescente emergenza umanitaria, le preoccupazioni americane. Punto per punto:
- Tagliata in due L’esercito israeliano ha ormai tagliato il Nord della Striscia dal resto del territorio, preparandosi alla battaglia di terra nella metropoli diGaza City e a una fase della guerra che si annuncia ancora più sanguinosa.
- I profughi Sono 800 milale persone che si sono spostate da Nord a Sud dopo l’ordine di evacuazione degli israeliani. Ma altre centinaia di migliaia sono rimaste a Nord. Decine di migliaia si sono rifugiate nell’ospedale di Al Shifa, che rischia di diventare l’epicentro della battaglia.
- Perché è importantePerché gli israeliani sono certi che nei sotterranei dell’ospedale ci sia il quartier generale effettivo di Hamas, con i suoi capi. Ieri i dirigenti del nosocomio hanno detto che il tetto è stato colpito, e che i pannelli solari che assicuravano una parte dell’energia necessaria sono stati distrutti. L’esercito di Israele ha smentito.
- Il nervosismo americano Col passare dei giorni, l’amministrazione Biden aumenta la pressione su Israele perché eviti un’occupazione prolungata e accetti pause umanitarie che facilitino i soccorsi e i negoziati per la liberazione degli ostaggi. Il presidente è sotto il tiro dell’ala sinistra del Partito democratico e i sondaggi lo danno in svantaggio su Donald Trump in 5 dei sei Stati incerti in cui si deciderà il voto, e almeno in un paio lo scontento della comunità musulmana può essergli fatale.
- I tempi che non concidonoSono quelli dello stato maggiore israeliano — che calcola di doversi scontrare sul terreno con Hamas almeno fino a fine dicembre, e sta già distribuendo l’equipaggiamento invernale — e quelli degli americani, che non possono permettersi una battaglia così lunga e sanguinosa: sia per le ripercussioni interne sia per quelle internazionali, con gli Stati arabi moderati che premono per una de-escalation e il fronte sciita (Iran e libanesi di Hezbollah) che potrebbe calcolare male le sue provocazioni a Israele e generare una escalation.
- Il calendario Usa Scrive l’analista israeliano Amos Harel: «Gli americani perderanno la pazienza e si ritireranno dal loro sostegno intransigente alla guerra contro Hamas? I funzionari israeliani coinvolti nella questione dicono che è una questione di quando, non di se. E la risposta, secondo alcune valutazioni, è tra il Giorno del Ringraziamento (23 novembre) e Natale». Vuol dire che, per quanto il governo israeliano ripeta che la guerra durerà fino alla distruzione di Hamas, «Israele non ha un tempo illimitato».
- Una guerra complicatissima Fonti militari affermano che «non ci sono segni di cedimento da parte di Hamas. Li vediamo condurre complesse operazioni coordinate con droni, mortai e missili anticarro. Non si tratta di poche persone che combattono per la loro vita, ma di un sistema funzionante. Gaza è ancora il più grande obiettivo fortificato del mondo». Ma c’è anche un altro fronte politico.
- Netanyahu sotto assedio… Contestato dai familiari degli ostaggi e in aperta collisione con i riservisti — che accusa di aver favorito i piani di Hamas con il loro rifiuto di prestare servizio durante i mesi di proteste contro la sua riforma giudiziaria — il premier è sempre più impopolare: secondo i sondaggi, metà degli israeliani vorrebbe al suo posto Benny Gantz, che ha lasciato l’opposizione per entrare nel gabinetto di guerra ma resta molto critico con il leader.
- …e ostaggio dell’ultradestra In più, Netanyahu non prepara certo una svolta moderata per il dopoguerra. Al contrario, scrive Davide Frattini, «si tiene stretto gli ultrà messianici portati da lui per la prima volta al potere. Gli garantiscono la tenuta della coalizione, deve accettarne i veti». Non solo: stando a «fonti di altro profilo» (lui stesso o un suo consigliere), condivide anche i loro piani per il futuro, in base ai quali, «il conflitto contro Hamas non può portare a un ritorno dell’Autorità di Abu Mazen nella Striscia, a una riunificazione politica dei territori palestinesi, a una riapertura dei negoziati di pace verso uno Stato».
Sarà, insomma, una guerra lunga e dall’esito drammaticamente incerto.